Edizioni Fermenti
Copertina di Domingo Notaro
L’arte di narrare è rara, e Leda Palma la possiede, l’ha affinata nel tempo e, soprattutto, la sa praticare con grazia e senza inutili compiacimenti. Persino in certe lunghe descrizioni (di paesaggi, di stati d’animo), lunghe perché ormai non vi siamo più abituati, riesce a tener viva l’attenzione, a non risultare mai superflua.
Quando gli scrittori italiani si mettono a scrivere di emozioni, novantanove volte su cento risultano insopportabili, autocompiaciuti soprattutto nei difetti, nei tic, nelle lagne. Furiosamente e incivilmente convinti che il loro pigolare un po’ isterico abbia l’importanza e il fragore di un grido, e la banalità delle esperienze che raccontano sia fonte di meraviglia continuata. Leda Palma usa invece toni sommessi. Il ritmo delle sue frasi è quello del ricordo. E la protagonista dei suoi racconti, Rosa, è una bambina pudica ed educata che non dice mai “io”: la narrazione è in terza persona.
Ma bastano poche righe e siamo con Rosa, insieme a lei, dentro di lei. Sentiamo gli odori che lei sente, vediamo le cose che lei vede, viviamo nel suo tempo, anzi nel suo spazio-tempo, lo scenario della campagna friulana su cui s’innesta la tragedia della seconda guerra mondiale, una guerra che arriva alla bambina attraverso le facce graffiate dai rovi dei giovani soldati che per rendersi graditi alle belle sorelle si sono offerti di raccogliere le castagne al posto loro, il sorriso del giovane vicino di casa che prima di partire per il fronte schiaffa sulla testa della piccola amica, per gioco, il suo cappello d’alpino, il russare terrificante dei due anziani coniugi che si sono trasferiti a casa sua avendo lasciato la loro agli occupanti. Quel russare che trapana i muri. Quel russare gagliardo. Più forte, nel ricordo, delle bombe. Perché poi è proprio questo lo strano affascinante meccanismo della memoria: procedere per dettagli, amplificarli, mitizzarli. Dettagli che diventano simboli e parlano un linguaggio universale. Scrisse Oscar Wilde: “Le grandi cose della vita sono ciò che sembrano essere, e per questa ragione sono difficili da interpretare. Ma le piccole cose della vita sono simboli. Noi riceviamo le nostre amare lezioni assai più facilmente attraverso queste”.
“Le note dell’organo fiumavano lungo le navate vuote, oscurate da un largo ombrello di maltempo, si rincorrevano rabbiose da un altare all’altro, dalle prime panche firmate all’ultima sbilenca dove i ragazzini attendevano la dottrina scalciandosi e ridacchiando, il gelo gonfiava di rosso mani e naso, i piedi si raggrinzivano negli zoccoli di legno, più si spintonavano più fiotti intirizziti penetravano nelle pieghe della mantella…”. Siamo già vicino a lei, vicino a Rosa. Bambina con mani e naso gonfi dal gelo, piedi calzati in zoccoli di legno, eppure allegra, indisciplinata come tutti i bambini in chiesa. “Rosa non amava il catechismo, un refolo di paura le saliva lungo la schiena ai dieci comandamenti e agli altri imperativi di cui era nutrito, preferiva il martirio delle ginocchia sul piancito durante lo scampanellio delle funzioni, lo stordimento dell’incenso, il rapimento dell’ostia consacrata che lei sbirciava di sottecchi”. Una descrizione sobria e insieme acutissima di quello stato d’animo mistico e romantico che fa preferire ai bambini, ai folli, agli ingenui, ai “semplici” (quelli “pieni di paura e desiderio, di devozione e selvagge passioni”, come li definisce Jeremias Gotthelf), le cerimonie e le funzioni, i rituali e le temporanee mortificazioni della carne. E gli eventi danno ragione a Rosa: il catechismo, che lei detesta e teme, diventa un disgustoso pretesto per il cappellano lascivo. Lei, così piccola, sa reagire, e quanto. Scappa disperata e piena di rabbia, di vergogna, di impotenza. Urla in silenzio la sua ribellione e la sua sfida: è una questione fra lei e Dio, quel Dio che l’ha ingannata coi suoi preti infidi, gli altri non c’entrano, non ci pensa nemmeno a confidarsi. Solo più tardi, a testa alta, in chiesa, quando si troverà da sola col cappellano, l’urlo eromperà col disprezzo di uno sputo: “Mi fai schifo!”. In cambio uno schiaffo, ma che importa, lei ripeterà quell’urlo ancora. Un’altra descrizione ineccepibile, toccante, realistica. Che introduce un tema su cui vale la pena riflettere: al di là della pressione sociale che in una certa epoca ci chiede di tacere e in un’altra di denunciare, la decisione di elaborare in assoluta solitudine un’offesa così grande come quella della molestia sessuale può essere non una scelta, ma una necessità intima, profonda, non discutibile. Perché ci sono atti nei quali agiscono ben altre forze che un imbecille inconsapevole o un criminale cosciente, ed è con queste forze che occorre fare i conti, che la vittima deve vedersela, per superare il trauma. Rosa piccola ce la fa. Come ce la fa nei successivi dieci racconti/capitoli, tappe di un’infanzia che termina con l’apparire del sangue mestruale (e le sensazioni di una dodicenne che nulla sa della fisiologia del suo corpo, come accadeva a quel tempo). Tappe di un percorso della memoria in cui il lettore sempre più assume il punto di vista di questa bambina. Capisce il suo modo di sentire. Cammina con lei. E’ vicino a lei.
Dal paese di origine, Pagnacco, Leda si è staccata e ha fatto tanta strada, ha viaggiato, col corpo e con la mente, lungo un tracciato che lei stessa ci suggerisce nella sua terza silloge poetica: Roma innanzitutto, la capitale che le ha aperto le sue generose braccia, Mosca, Pietroburgo, la Cina e soprattutto l’India, irradiatrice di saggezza e d’armonia, Oriente “calligrafia di nuova adolescenza”. Ma il centro focale resta sempre il suo paese, non come oggi è, adulterato dalla civiltà industriale, ma com’era nella sua magica infanzia: le voci familiari, il recinto dell’orto, i campi di granturco, i rami del ciliegio, l’allegria del cane, la danza delle rondini (scomparse come le lucciole di Pasolini).
Ed ecco ora questa deliziosa raccolta di racconti che può essere letta come un breve romanzo di formazione:protagonista Rosa, una bambina di rara sensibilità e intelligenza, che dall’infanzia si apre all’adolescenza negli anni cruciali della seconda guerra mondiale.
Ogni racconto porta il nome di Rosa, con una dozzina di varianti: ROSA MISTICA, ROSA DI GUERRA, ROSA DI GLORIA, ROSA CASTAGNA…; e tutte assieme compongono un bouquet, o un roseto, o un rosario, di ROSE NOVELLE (l’aggettivo, se sostantivato, può anche alludere all’affabulazione stessa).
CLAUDIA VALERIO PAGAN
Un cammino a ritroso con passi leggeri, con meraviglia e smarrimento, fino ai sentieri dell’infanzia; così potrebbe essere definita la raccolta di racconti ROSE NOVELLE della sempre sorprendente Leda Palma. Che poi chiamarla raccolta di racconti è riduttivo. Anche se ogni capitoletto o cammeo è in sé concluso, la continuità narrativa fra i diversi testi viene a comporre un tessuto unitario che può essere letto come il romanzo di un’iniziazione. Iniziazione al dolore, alla sessualità, alla violenza, ai nimbi oscuri della guerra, alla conoscenza del mondo, alla dolcezza dei sentimenti familiari, alla bellezza trasognata della natura, al rispetto per la vita. Rosa, l’adolescente che diventa donna con sorpresa, paura e voglia di abbandono, è la protagonista del libro, Rosa i cui petali in boccio a poco a poco si schiudono ai venti dell’esistenza. Rosa rossa- come recita con bellissima immagine la frase conclusiva- che si scioglie al richiamo di un’acqua aperta pura e assoluta.
LICIO DAMIANI
Dopo il racconto CIELO DI CANE, steso di getto, struggente, in cui si rinviene un intenso profluvio di frasi spesso singultanti, Leda Palma in ROSE NOVELLE , dimostra di aver raggiunto la piena maturità espressiva, esibendo una prosa fluida, raffinata, sapientemente contenuta…
In questi undici brevi racconti, sono da porre in evidenza le correlazioni allegoriche fra quelli che, a mio avviso, appaiono i tre momenti cruciali, determinanti dell’infanzia e della pubertà della protagonista, con altrettanti componenti fondamentali della pianta della rosa: nel primo racconto, la scabra e lacerante “esperienza” sessuale col cappellano si accorda con il –gambo- di acute spine; nel settimo, assistiamo al primo, trepido e luminoso incontro con il mare, che si riconnette al bocciolo che, “ad occhi chiusi”, sta per espandersi “insieme al sole e all’aria” e, nell’ultimo, la scoperta della propria femminilità (descritta, o meglio, quasi sussurrata con una delicatezza e una sensibilità che mai ho rinvenuto in altre scrittrici di chiara fama le quali si sono soffermate su questo argomento) che corrisponde all’ “esplodere” della corolla in tutta la sua pienezza e fulgore: una rosa rossa- lo dice la stessa Palma- che dilata i suoi petali, una rosa sciolta al richiamo dell’acqua fiumana, “aperta, pura, assoluta”.
ARNALDO LUCCHITTA
…Sono spaccati di vita che dalla semplicità dei gesti e delle cose rimandano ad una intensità profonda di sentimenti, di affetti, di ideali, di amore per la vita che riesce a valicare anche la densità e la pesantezza del dolore. Sono affreschi in cui affiora tutta la grazia e la tenerezza del femminile in una purezza assoluta che appare estranea ad ogni peccato originale. Il candore, la naturalezza, l’ingenuità, l’istinto, la sincerità, il pudore, il coraggio, la generosità si rivelano come i connotati irrinunciabili della personalità di Rosa, i tratti della sua fisionomia interiore, quelli ai quali resterà fedele per tutta la vita. Nel contesto storico di un Friuli in guerra, negli anni Quaranta, nello scenario del paese originario – Pagnacco- mai nominato ma intuito e riconoscibile nella dolcezza delle colline e nelle macchie dei colori vegetali che lo rappresentano, sulle sponde ondulate del Cormor o nelle pieghe più segrete del borgo “acquattato negli anfratti della domenica”, Rosa si costruisce un mondo parallelo, forgiato sulla sua misura, si ritaglia uno spazio interiore da cui rigenerarsi e prendere forza nei duri momenti dello scontro con la vita, certamente non facile, di quei giorni. Emerge qui una energia positiva, tutta femminile, capace di rovesciare la realtà, di rifondarla su altri valori: a volte fronteggiandola, a volte ironizzandola, a volte anche subendola con la lucidità della propria impotenza. Mai con disperazione, mai con sconforto, soprattutto mai con la rassegnazione. Ogni dolore è lenito dalla capacità di intravederne il superamento. Ogni pena è capace di rigenerare la gioia della vita attraverso la capacità di dare sempre, in ogni momento, qualcosa di importante agli altri, di trasmettere il senso della scoperta e dello stupore di fronte al miracolo dell’esistenza del mondo e di tutte le sue creature…
MARIA CARMINATI
ROSE NOVELLE è un libro che molto sa di musica: ha tempi, modi, scansioni che sono assolutamente musicali, allegro, allegro con moto, minuetto, andante, adagio, andante con moto.
…ma soprattutto c’è la natura, il rapporto straordinario di una bambina (nata in tempi in cui c’era la guerra, in cui eravamo tutti più poveri) con gli alberi, i ciliegi, le castagne, le galline, i conigli, il cane. Ed è la storia, toccante, di un privilegio perduto dall’infanzia di oggi destinata a vivere tutto in dimensione virtuale…
ANNA MARIA MORI